Caro Osvaldo, prima parte

Questa è la prima parte di Caro Osvaldo, un diario con la scusa della quarantena, dal 10 al 17 marzo.

10 marzo 2020

Caro Osvaldo,

1 a 0 per me: iniziare col piede giusto è facile. Un goal a porta vuota, ma è pur sempre un goal. La sveglia ha suonato, l’ho sentita, il mio corpo non si sente in vacanza, ha sferrato un pugnetto contro l’aria, come riscaldamento ed è pronto ad andare.

A restare.

L’efficenza è stata fin da subito tangibile, gli incastri in casa sono stati ottimi – Simone da una parte, con il suo computer, le sue cuffie e le sue telefonate; io da un’altra sul Mac, quello che dovrebbe essere della famiglia ma in realtà è più mio che degli altri, su cui di solito scrivo, quando devo scrivere.

Il lavoro non è ancora puntuale: non ho accesso agli strumenti per lo smart working. Ieri ho lasciato lo schermo del computer del lavoro acceso. Mi chiedo se qualcuno andrà a sbriciare il mio desktop («È un MAC, si chiama SCRIVANIA!») e riuscirà a far finta di niente.

Paolo sembra sereno. Gli ho spiegato che da oggi anche mamma rimane a casa per lavorare e la sua risposta è stata: «Allora mi leggi Elmer

Allora. Con pazienza, certo.

11 marzo 2020

Caro Osvaldo,

i miei colleghi sembrano sereni. Essere sereni in sei è un buon punto di partenza. Ognuno ha uno sfondo diverso: ho visto un piumone, una credenza, il frigorifero, una porta molto in fondo e un muro bianco con una presa, a volta inquadrata e altre no. Se ci vedessimo su Zoom – prima di ieri non sapevo che esistesse Zoom – riusciremmo a ricreare l’open space dell’ufficio?

Non è che mi manca l’open space, la polvere dei libri e la moquette. Mi manca tutto il resto. Oggi ho realizzato con contezza plastica che sono stata molto fortunata con i miei colleghi. Mi sono sempre ritrovata in contesti piacevoli, in cui ci sono persone da ascoltare e con cui parlare. Prima, oggi.

Adesso abbiamo una chat di ufficio su Google. Prima ce l’avevamo su Telegram ed era molto divertente. Ogni tanto c’era qualcosa da dirci anche nel week end. Adesso ci parliamo solo in chat ufficiale e quindi parliamo solo di lavoro.

No, non mi manca ancora il Palazzo: sto scherzando.

Quando me ne sono andata l’altra volta, la mancanza l’ho sentita a tradimento, un giorno di novembre con la pioggia che batteva sul lucernario dell’ufficio nuovo. Mi venne in mente che a Palazzo dovevo impegnarmi per sentire la pioggia: dovevo esercitare forte la vista contro il vetro per scorgere le gocce o il vento. È il castello col niente intorno, ma è un’abitudine.

Non mi manca il pannello verde a sinistra, né il disegno di Wimbledon attaccato sopra. Figurarsi se mi manca la foto di Paolino: ce l’ho davanti a me ogni ora che desidero.

«Mamma, che fai?»
«Rispondo a un collega.»
«E dove?»
«Dove cosa?»
«Dove rispondi?»
«Qui? Vedi?»

E non mi manca la mensa, né i turni che ci avevano già dato con l’inizio dell’epidemia. Non mi manca il laghetto che cambia destino al girare del vento e la carraia e la navetta e il treno dei pendolari della linea S5 o S6, a seconda.

Ieri è trascorsa una vita. Per quanto sia assurdo, per quanto non ci sia nessuna guerra, per quanto sono viva e c’è chi continua a morire nel mondo e senza COVID, l’altro ieri era un’altra vita. Non so cosa significa, non ancora: sto capendo come si fa.

12 marzo 2020

Caro Osvaldo,

oggi ho camminato fino al supermercato e ritorno. E ho barato: mi sono fatta un giro dell’isolato in più, pregando di non incrociare nessuno. Non avevo Paolo con me, non avevo cani, avevo solo il carrellino della spesa colmo di cose che non mi servono: quelle che volevo le avevano già tutte prese.

Simone e io stiamo reagendo a tentoni: non siamo corsi a fare razzia all’Esselunga, non ci siamo segregati totalmente in casa, Paolo fa qualche passeggiata attorno all’isolato una volta al giorno, per non più di mezz’ora. Ci tiene la mano, non ci avviciniamo a nessuno. Scherziamo sul fatto che viviamo nell’isolato di Milano che si chiama Lazzaretto. Quel Lazzaretto, quello del Manzoni.

Faccio quello che fanno la maggior parte degli altri: sto a casa il più possibile e poi bramo la mezz’ora d’aria che mi concedo arbitrariamente. Usciamo tutti e tre insieme, poi uno prende il bambino, l’altro no ma per mettersi a posto la coscienza l’altro va a fare la spesa, va in farmacia, va dal panettiere. Fa un giro dell’isolato in più. Va a fare cose che di solito non fa.

La smania di uscire ce l’ho sempre avuta?

13 marzo 2020

Caro Osvaldo,

oggi Paolo mi ha detto, perentorio: «Mamma, a me piace stare a casa.»

Mio figlio è un mezzo pantofolaio, non è mio figlio. Io oggi in bagno mentre mi preparavo per la giornata – ho abolito da subito il tutone, ci si veste di giorno come sempre – ho sentito lo sconforto salire. Piano, progressivo, poi un po’ più aggressivo, come le montagne russe prima di lanciarsi nel vuoto.

Sto bene, ho un tetto sulla testa, respiro e non mi fanno male le ossa. Posso permettermi di fare la spesa e lavoro ancora. Il mio settore andrà verso il picco, ma io per il momento sto bene. Eppure, in un minuto di silenzio accidentale, in bagno mentre mi preparavo per la giornata, sono scoppiata a piangere.

Mi ha scovato Paolo che ha avvisato Simone. Un po’ preoccupato, un po’ no. Come se mi fossi sbucciata un ginocchio.

«Mamma, ti fa male?»

Ieri sera ho finito di leggere Il colibrì di Sandro Veronesi. Se sei un lettore normale, sai che è l’ultimo romanzo di Sandro Veronesi, forse ricordi che è uscito per La Nave di Teseo. Se sei me, cioè un lettore che lavora in editoria, sai che è stato il precandidato al Premio Strega. Cioè il libro di cui si è parlato ancor prima che iniziassero le candidature.

È di ieri la notizia della dozzina del Premio di quest’anno. È la prima volta nella mia vita che ho letto quasi tutti i libri candidati, su tre dei dodici ho scritto pure un pezzo per il Libraio. Sono stata fortunata, sono libri ottimi. Anche Il colibrì mi è piaciuto, perché fa le tassonomie, le liste della spesa, svirgola all’ultimo, quando meno te l’aspetti, custodisce quelle cose che mi elettrizzano il cervello quando le leggo: i dettagli.

14 marzo 2020

Caro Osvaldo,

oggi è sabato, è il giorno di L.A.V.A., il mio gruppo di lettura. Non mio nel senso che l’ho pensato io, l’ha pensato Martina; mio nel senso che partecipo anche io. La particolarità è che ci troviamo una volta al mese a leggere ad alta voce un passo di un libro che vogliamo condividere. Incartiamo la copertina o comunque la camuffiamo, e dalle nostre poche parole – che vanno in live streaming su Facebook – gli altri possono indovinare di che libro si tratta.

Ho letto un pezzo da Le Ortensie di Felisberto Hernandez (La Nuova Frontiera). Delle loro librerie so molto, molto di più di quanto so della loro felicità: qualcuno direbbe che una libreria è prossima alla felicità ma non sono sicura per davvero. È un buon modo per arrivarci, magari. Non so se sono innamorati. Di alcuni di loro conosco il lavoro o se hanno figli e se adorano o meno la torta frangipane che Anna Maria ci prepara ogni sabato di ogni mese. Conosco i loro numeri di telefono perché abbiamo un gruppo Whatsapp ma non so dove vivono, che auto guidano, se la guidano, e quando è stata l’ultima volta che hanno mangiato la pizza, se la mangiano.

Ho fantasticato diverse volte sulle loro vite fuori dal sabato al mese in cui ci vediamo, e ne sono uscite sempre storie impalpabili. Non so perché, ma la mia mente si rifiuta di metterli in un contenitore, di tinteggiarli, di limitarne le gesta. Forse perché vorrei che nessuno di loro lo facesse con me.

Da stasera, conosco meglio le loro stanze: la cucina, il divano di casa, una sedia, un lampadario, un tavolo. Non sono più vicini rispetto a prima; solo: sono diversi. Loro hanno visto casa mia, cioè Paolo. Dice che mi somiglia moltissimo.

15 marzo 2020

Caro Osvaldo,

i miei genitori in perfetto target COVID sono preoccupati per me, che sto a Milano. Sono stata prossima a tornare a casa il 28 febbraio. Avrei dovuto prendere il treno, rimanere dodici ore, salutare la zia, andare al cimitero, tornare a Milano, ma all’ultimo ho disdetto, mi sono tenuta alla larga dai treni: erano i giorni in cui non si capiva bene cosa ti succedeva se venivi da Milano. Ed avevo il terrore che mi prendessero la temperatura a Termoli e avessi più di 37 e mezzo, per qualcuno motivo. Avevo il terrore di rimanere lontano da Milano.

Osvaldo, è stato il momento in cui ho realizzato qual è casa mia.

Oggi ho scritto un messaggio a ogni persona che conosco e che di solito vedo almeno una volta a settimana. Sono mamme con bambini, compagni di scuola o amici di Paolo. Tutti prefigurano la catastrofe imminente:

COME FAREMO AD ANDARE AVANTI COSÌ?

La verità è che nessuno ci ha abituati a fare i genitori a tempo pieno in case di ottanta metri quadri. Abbiamo un lavoro, anche se part time, anche se a casa, e c’è stato un micro nido, un nido, una sezione primavera, una scuola materna a volte una tata e nessuno dei bambini è davvero abituato a stare con noi, a condividere una porzione di spazio con degli adulti che lavorano tutto il giorno.

Lo spazio è una cosa sacra: è la prima cosa che insegniamo a questi bambini. Prima che arrivano, facciamo spazio: in casa, negli armadi, all’ingresso, nel corpo e poi, una volta nati, li circondiamo, controlliamo temperatura e umidità. Siamo inflessibili con noi stessi e cominciamo la tiritera delle parole: entrare, uscire, il box no perché limita gli spazi, la tua stanza, la mia stanza, il tuo lettino, il mio cuscino – non rubarmi lo spazio, non dormiamo troppo insieme ormai sei grande, mi lasci andare in bagno?, mamma lasciami fare la pipì ormai sono grande – e adesso le regole sono andate completamente a farsi benedire.

Lo spazio di Paolo in casa è lo spazio di tutti: ha i libri dove sono i nostri libri, ha le sue merende della colazione dove sono le nostre, ascolta la musica dove l’ascoltiamo noi, i suoi strumenti musicali sono accanto al pianoforte del padre – il pianoforte, tecnicamente, è nella sua stanza, che non propriamente la sua stanza – e sul desktop del mio computer c’è un file di testo che si chiama Paolo.doc dove sono digitate lettere a caso, di quando una volta Paolo ha preteso di scrivere anche lui, come me, su un foglio bianco. Digitale.

Va dove vuole, ha quasi quattro anni. Arriva al lavandino, supera la cassettiera, riesce a sfilare da sotto qualsiasi libro e quaderno. Va dove vuole e vuole stare con noi.

Allo spazio non abbiamo mai dato troppo peso, a dividere, a mettere i limiti. Questo, secondo le moderne concezioni dell’educazione, fa di noi dei genitori da cuoricino ma oggi, con la quarantena in salita, con la reclusione totale alle porte, vorremmo essere negli anni Cinquanta, quando i bambini stavano al posto loro, tutti insieme, ammassati, in grande quantità e si facevano compagnia.

«Mamma, mi leggi Elmer
«Certo, cuore mio.»
Ma tu, cuore mio, ti senti mai solo qualche volta?

16 marzo 2020

Caro Osvaldo,

è finito il lievito di birra. Quando l’ho detto a mia mamma mia mamma già lo sapeva perché lo aveva detto il telegiornale, e mia mamma non se ne è stupita, io sì.

Non pensavo che a Porta Venezia si panificasse in questo modo. Tendenzialmente, i locali sono sempre tutti pieni, il pane lo vai a chiedere a chi lo fa di mestiere, quindi non pensavo che chiunque si fosse preso la briga di fare la pizza o il pane o entrambe le cose.

A casa mia la pizza ha saltato una generazione: dalle mie nonne a me. Mia madre non si è mai curata di imparare a perfezione a farla. Si è concentrata su cose difficili, lei, tipo il risotto ai frutti di mare, la pescatrice con le patate, la pastiera napoletana. La pizza proprio no: arrivava dal piano terra, o da casa dell’altra nonna.

Io invece che all’Università ho dato tutto il mio animo terrone a certi tipi di cucine, ho tentato di farmi una famiglia fondata sul pranzo della domenica e ho imparato subito come farmi la pizza a casa, anche col forno elettrico o a gas. È nella classifica delle mie migliori dieci qualità, se riusciamo con convinzione ad arrivare a dieci.

E adesso io non posso fare la pizza.

E voi, voi che avete fatto incetta di un lievito che riporta una scadenza, almeno: avete usato la mozzarella giusta? Dico a voi, dico a voi che non avete mai fatto una pizza in vita vostra e adesso pensate sia semplice: che mozzarella avete comprato? Avete comprato il fiordilatte? Sapete almeno la differenza che passa fra un fiordilatte e una pasta filata?

E il pomodoro? Che conserva avete usato? Quella già condita? Quella liscia? Il pelato? Mica avete usato la passata? Ce l’avete la conserva del Molise, come ce l’ho io?

E l’olio? È extra vergine di oliva, sì?

17 marzo 2020

Caro Osvaldo,

ho fatto il cambio di stagione. Alla faccia di chi mi ha sempre detto che sono pessimista. Non conosco nessuno che abbia già fatto il cambio di stagione. Nessuno.

Simone ha messo a lavare sciarpe, guanti, cappelli, felpe pesanti e maglioni. Io ho preso le maglie a maniche corte. Mi sono arrampicata per tirare giù le scatole dalla parte superiore dell’armadio – ho un armadio a ponte, lo odio – e ho svuotato e riempito, con la stessa convinzione di quando a tre anni si svuota il mare.

Mi va tutto largo. Mi ero dimenticata. È successo che a giugno scorso mi sono messa a dieta, per l’ennesima volta in vita mia, ma questa volta mi sono pure iscritta in palestra e ci vado con costanza dal 27 giugno 2019. Sì, da un’altra vita. Quindi la maggior parte dei vestiti che mettevo l’anno scorso mi va larga.

Io non so comprare on line quasi niente. Non comprerò on line, mi farò forza. Aspetterò. Tanto adesso coi vestiti che ci faccio? Dove vado? Me li metto in casa?

Ho fatto il cambio di stagione e poi ho indossato i miei sandali preferiti. Hanno i tacchi. No, non c’era motivo, eccetto la sopravvivenza mentale.


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