Resistenza di ceramica

Com’è?
Buona.
Solo buona?

Nonna ci teneva proprio tanto: alla fine delle conserve, alla fine dell’imbottigliatura dell’olio, mi domandava sempre come fosse. La mia bocca era per questioni di gioventù una bocca eletta: si sarebbe dovuta portare appresso il segreto della natura nei contenitori degli alimenti, il futuro della raccolta stava lì per un anno intero a ricordarle se era venuto tutto bene o tutto male e non poteva rischiare che la mia bocca non ci facesse affidamento. Ma non si contentava mai della mia risposta. Rimetteva le mani a pugno nel grembiule e gli occhiali indietro sul naso con un gesto secco e insoddisfatto, sottolineandomi così la responsabilità che non nobilitavo.

Nonna a me pare buona. Che devo dire?
Buona, buona. Buona va bene, diceva con la voce sforzata. Dove ci sono adesso i barattoli per degli anni ci ho vissuto io, quando sulla tua sedia stavano seduti i tedeschi.
La questione dei tedeschi era più forte di me: m’alzavo di scatto e il pane olio e pomodoro lo mangiavo in piedi accanto a lei in cucina, mentre mi raccontava le cose, per arrivare subito al 25 aprile, lasciando la sedia lì dov’era, disordinata e calda. La storia dei tedeschi riscuoteva in me un profondo senso di colpa. Pensavo sempre ai libri di scuola dentro i barattoli di passata, rossi pure loro; il suo letto di quegli anni aveva fatto il posto a bontà che io volevo più di tutte. Invece di metterci attorno altarini e madonne, ci stavano i pomodori.

Non me lo dimentico, mica. Lo so. Me lo dici sempre.
Perché voi giovani certe cose non le vedrete mai. Dio ce ne liberi. E però qualcuno ve lo deve sempre dire che manco va bene se ve le dimenticate.
Sono più dolci i pomodori quest’anno?
Lo vedi? Te ne accorgi se ci pensi. Certo che sono più dolci, l’ho detto anche io.
E come mai?
E chi lo sa. La terra te li dà come te li vuole dare. Tu mica ci puoi fare qualcosa.
Meglio però.
Non sempre, non sempre; l’anno che sono arrivati loro era tutto dolce, me lo ricordo, ci sembrava un anno buonissimo, e invece.

Mia nonna diceva che la guerra non l’ha sentita come me, per davvero, completa e confezionata, ma con un suono tutto suo. Sono tanti i rumori, l’artiglieria, le bombe, gli elmetti, il suono della guerra è freddo perché è d’acciaio, si sa. Il suono della sua guerra era fatto del silenzio a preparare da mangiare, a stare buoni in un angolo per non fare arrabbiare nessuno, alle passeggiate una volta alla settimana dentro il perimetro della ringhiera, cercando qua e là con gli occhi grandi un segno di qualcuno conosciuto, a vedere le foglie ingiallire e poi cadere, a sentire i passi ogni tanto, orecchio teso e respiro ingoiato, per capire se entravano o uscivano, a guardare i capi calvi o avere paura dei piedi pesanti sul pavimento, se il soffitto scricchiolava un poco.
Le donne e i ragazzi del suo quartiere hanno abitato la cantina per anni. Un quadrato abbastanza grande, ogni nucleo familiare monco in un angolo poco luminoso: cucivano, cantavano piano, un paio leggevano poco e per tutti, parlavano a bassa voce con gli altri delle case accanto, nel cortile di dietro vicino al dirupo e ogni tanto i bambini si mettevano sulle scale vuote, scavate nel legno a stare zitti e giocare coi gambi esili dei fiori o con la legna da ardere nella stufa.

A un certo punto c’è stato il suono della ceramica. Dalla sera alla mattina, salendo le scale, la stanza di sopra era abitata a tutte le ore e non si usciva più perché attaccati alla ringhiera c’erano i militari tedeschi. I tedeschi stavano di più in casa, non andavano quasi mai via, mai per lunghi periodi, avevano bisogno di noi, del paese, piccolo e senza la guerra vera dei fucili; noi aspettavamo, facevamo solo da mangiare, quello dovevamo fare e niente più; portarlo su a loro e mordere quello freddo noi, e ogni volta che toccava a me a salire su vedevo in giro se le cose erano come le avevo lasciate la volta prima. Testa bassa e vassoio in su, dritto, educata, senza acciaio; il suono era quello della ceramica, delle tazze, dei piatti bianchi con il contorno lavorato, del vetro dei bicchieri e degli anfibi pieni di fango vicino alla forchetta per terra. Parlavano sempre di più, ridevano sempre meno, camminavano spesso in casa e uscivano poco, sempre per pochi minuti e la Resistenza – ma noi non lo sapevamo che era – per me ha tenuto il suono della ceramica. Più loro stavano dentro come i maiali nel recinto della ringhiera, più noi eravamo prigionieri come loro ma senza sapere di chi, a un certo punto ci pareva che avessero paura anche loro e noi di più: la paura diventava doppia, quella di prima e quella di poi, la nostra e la loro, vicina alla fine.

I tedeschi non si capivano, ma mangiavano. Tutti i giorni normali, sembravano in vacanza, erano tranquilli, la guerra aveva il suono della serenità dell’allerta, del serpente che striscia tra i ciuffi di erba alta: lo senti ma non lo vedi. Guardavano il sole, odoravano i fiori, mordevano la frutta lasciando il succo spargersi sulla tavola, mettevano i piedi sui braccioli della poltrona e accatastavano giornali e carte bianche sulla sedia di paglia vicino alla finestra del balcone. Mia nonna non credeva alla fine: di sopra loro continuavano a mangiare, sbattendo le forchette sulla ceramica bianca, tintinnii quasi interminabili, ogni volta più lunghi dopo il caffè, ogni giorno più forti e grossi e frequenti, pieni zeppi di fango, con la bocca piena. Il paese era abitato, tutti dentro, tutti insieme; nelle case più belle c’erano loro e si chiudevano dentro, nelle cantine grandi ci si stringeva anche se arrivava il caldo e l’inferno te lo raccontano alla Messa, è caldo.

Il suono della guerra era il silenzio, quello della Resistenza la ceramica. Ma la Resistenza era il nonno che non scriveva più, le donne con gli occhi fuori nella campagna appena uscita dall’inverno per vedere il Nord e quanto sarà lunga questa Italia che aveva le montagne e chi c’è mai stato. Al Nord, lo diceva qualcuno a un certo punto, c’era la Resistenza, ma nessuno sapeva come fosse fatta, se assomigliasse allo stagno o all’acciaio, alle teste calve o ai ricci bruni, ai morti o ai sopravvissuti zoppi.

—–

[questo racconto è ovviamente dedicato alla mia nonna, Maria, ed è parte di una raccolta spessissima curata da Barabba e promossa dall’ANPI di Carpi. La raccolta si chiama Schegge di Liberazione: potete scaricarla gratuitamente, leggerla e diffonderla. Io oggi sono di un commosso che lo capirebbe solo la mia nonna.]