Un dito di liquore

Ho iniziato a usare i bicchierini rosa per bere il liquore prima di cena. Prima e dopo, ma soprattutto prima. Non è più il sorso a fine pasto che mi soddisfa, ma quello poco prima.

La prima tazzina l’ho crepata mentre cercavo i vestiti estivi e prendevo la valigia rossa dal punto più alto dell’armadio: la tazzina era sul tavolo, la valigia troppo pesante mi è caduta dalle mani.
Ho rotto tutte e sei le tazzine di caffè, in sei mesi, e ora nei bicchierini rosa ci prendo anche il caffè e ogni sei bicchierini mi costringo a lavare i piatti.
La seconda tazzina l’ho rotta sedendomici sopra, la terza con un gesto maldestro spostando il vassoio con la colazione da consumare, la quarta inciampando e cadendo a terra mentre stavo per uscire di casa di corsa, la quinta nel lavabo insieme a una montagna di piatti, una settimana fa, la sesta ieri, lanciandotela addosso per il nervoso, anche se non c’eri. L’ho lanciata al muro, l’ho spaccata accanto alla pianta dei gerani, se ci andassi a guardare ci sarebbero i cocci da recuperare, ma non ho voglia. Li lascerò lì a sotterrarsi da soli, a recidere i gambi dei fiori, così l’estate prossima avrò un’occasione nuova per maledirti, quando dovrò cambiare il vaso ai gerani e mi taglierò irrimediabilmente.
I bicchierini rosa tingono di pastello quel che ci bevo e fanno sembrare tutto tè verde: il caffè, il liquore alla liquirizia, l’amaro di mia nonna: quando parlo con mia madre in video chat le dico sempre che bevo tè verde e lei mi risponde sempre che non mi piaceva il tè da ragazzina e io le ribatto meglio il tè che altro e lei dice solo sì. Nel quartiere dove vive non succede mai niente, mi racconta solo di quando muore qualcuno Così se sono parenti di persone che conosci lo sai, dice. Grazie mamma, rispondo io. E che si dice lì? mi dice lei. Niente, dico io, non c’è più nessuno, l’estate è finita. Alla fine mi chiede quando torno, io le dico non presto, ché non mi piace pensare a quando tornerò, non con lei almeno.

Spuntano dal vasistas aperto due fiori di geranio rossi, un davanzale coi gerani qui intorno non l’avevo mai visto, e da qualsiasi punto di questo pezzo di vallata tu guardi, l’occhio cade su quel vasistas e i suoi gerani, ogni volta.  Creo sia una distratta, fa cadere cose in continuazione e le rompe: si sente sempre rumore di cocci dal soffitto e subito dopo parolacce in italiano. Non capisco mai quello che dice tranne le parolacce e ogni volta che sento rumori di piatti e tazze, sento anche quelle. Se è sveglia di notte e anche io, accanto al vaso c’è sempre un bicchierino rosa quasi vuoto, dentro un dito di qualcosa simile al tè verde che al mattino non c’è più.
Ho le mani sudate, la ceramica sbatte pezzo contro pezzo ad ogni passo, quindi metto il pacchetto sotto al braccio, per tenerlo più fermo, entro dal portone principale e faccio le scale piano. Non ha un tappetino, allora prendo un pezzo di giornale da sotto la mia poltrona e lo metto davanti alla sua porta. È la pagina dello sport, se si macchia non importa, poggio lentamente il pacchetto, suono al campanello e scappo su da me, faccio le scale a due a due. Lascio aperto poco per sentire cosa dice, mentre sto attento a non respirare forte, sto fumando troppo ultimamente. Ci mette qualche minuto per aprire e qualche altro per richiudere.

Chi era?
Non lo so mamma, c’era un pacchetto davanti alla porta, avranno sbagliato, domani lo porto al portiere.
Hai un portiere?
Sì, mamma, perché?
Non so, non me l’avevi mai detto.
Immagino di sì, immagino ci sia un portiere.
Immagini?
Eh, mamma, non ne ho mai avuto bisogno di un portiere, in sei mesi. Che vuoi che ti dica.
Ok.
Senti, ho sonno, a domani.
Ok.
Prendo il pacchetto da terra, carta marrone anonima e uno spago annodato con un fiocco, sento muoversi degli oggetti dentro, uno contro l’altro, un rumore di cose piccole tintinnanti. Lo metto sul tavolo. Metto un po’ di liquore nel bicchierino, lo bevo alla mia finestra incassata, l’unico angolo della casa che mi tiene ferma, ingabbiandomi per metà: vedo passare due muratori che rientrano in casa, nell’ultima in fondo, hanno una certa fretta, sempre la solita certa fretta. Dopo nessun altro. Mi sento osservata dalla carta marrone, scruto lo spago con la coda dell’occhio, giurerei di avere visto il fiocco sciogliersi e la carta aprirsi, mi giro di scatto e no, Forse è solo che ho bevuto troppo, penso. Tiro un lembo, il fiocco si scioglie, come i nodi fatti ad arte dei marinai, che hanno un solo punto accessibile, apro la carta: c’è una scatola di latta chiusa solo da una parte con del nastro adesivo, un pezzo tondo, lo tolgo con le unghie, sbircio.

La decorazione dei piattini è la prima cosa che ho notato: niente fiorellini o ramoscelli. Strisce colorate, sei colori diversi, uno per piattino, lo stesso poi ripreso sul manico delle tazzine. Le tiro fuori tutte, come i pezzi di un puzzle e viene fuori l’arcobaleno, sul fondo della scatola un biglietto. Non lo leggo subito, il fiato nei miei polmoni è più silenzioso, le mandibole rilassate, non voglio sapere chi è.
È notte da qualche minuto o da mezz’ore intere, ma da fuori entra il buio e ogni volta che non ne me accorgo mi dico sempre che questo è luogo in cui esce la luce ed entra il buio, che l’inversione degli emisferi e dei modi di dire non è una cosa ideale e se mi metto a testa in giù a guardarlo, questo mondo, casa mia è comunque lontanissima, ma quel biglietto no.

Don’t cut yourself with the broken pieces: I would consider it my fault.

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Foto di: Mauro Tosca